"Politiche dell’etnopsichiatria"

e politiche della cultura

Roberto Beneduce (*)

 


(*) Etnopsichiatra, Coordinatore del Centro F. Fanon, professore associato di antropologia culturale alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino.

Seminario di Bucine (Arezzo), 28.7.2000

Campus "Memorie e identità in una società plurale.

Metodi e strategie per una ricerca dialogica"

 

Che cos’è l’etnopsichiatria?

Da qualche tempo l’etnopsichiatria è chiamata a confrontarsi con problemi sicuramente nuovi, come se fosse stata precipitata dai suoi presupposti teorici, dalle sue promesse cliniche o più semplicemente dalla sua stessa genealogia epistemologica fra questioni che vanno ben oltre l’orizzonte della terapia o quello della ricerca sulle connotazioni culturali della malattia mentale, e a rispondere per ciò stesso a domande che sopravanzano abbondantemente gli interrogativi metodologici derivanti dall’intreccio fra categorie antropologiche e modelli psicologici. In riferimento al contesto francese così annota Nathan: "L’ethnopsychiatrie s’est vue violemment conflictualisée, comme si l’on avait cherché à la faire entrer de force dans un débat politique piégé par avance: communautés ou République, culturalisme ou universalisme. Rien n’est plus éloigné de son inspiration que cet état de guerre qu’elle s’est vu et se voit de jour en jour imposer!" [1] (nostro corsivo). Abbiamo allora la necessità di definire preliminarmente che cosa intendiamo per etnopsichiatria, poiché questo "stato di guerra" non esprime solo un equivoco: abbiamo necessità di disegnare in altre parole, anche solo grossolanamente, il campo d’azione di questa disciplina, la sua genealogia, i suoi discorsi. Ciò fatto, tenteremo di comprendere le ragioni — non sempre metodologiche, in qualche caso propriamente "politiche" — delle sue aporie e dei dissidi che l’attraversano opponendo fra loro alcuni dei suoi maggiori rappresentanti, e il perché dei contrasti che continuamente affiorano fra l’etnopsichiatria e le discipline che costituiscono le sue "frontiere naturali" (psicanalisi e antropologia): e ciò spesso con incomprensibile violenza. Senza avere la pretesa di sciogliere questi veri e propri enigmi, ad uno stesso tempo ideologici, etici, giuridici, antropologici e clinici, ci sembra tuttavia urgente proporre per alcuni di essi una collocazione non provvisoria in seno alla riflessione etnopsichiatrica.

A voler rintracciare l’origine dell’etnopsichiatria ci si perde in un meandro di definizioni, interrogativi, distinzioni. Dovremo trovare colui o colei che primo o prima fra tutti propose questo termine? Chi ci assicura che una simile ricerca possa aver fine? Non potrebbe, in qualche rivista minore, in una lingua sconosciuta, in qualche lettera o appunto essere stata scritta o proferita questa parola per la prima volta senza che si possa da parte nostra mai venirne a conoscenza? Per fortuna possiamo immaginare un tempo al di là del quale la ricerca non ha significato: il suffisso -psichiatria nasce in un’epoca precisa, intorno al 1850, in un paese altrettanto preciso, la Germania, e così possiamo star certi che non avrebbe molto senso cercare il termine "etnopsichiatria" prima di quella data. Tuttavia i problemi non sono certo risolti perché se pure ci si limitasse ad individuare i primi usi del termine "etnopsichiatria" o del suo derivato aggettivale a partire dalla seconda metà del secolo XIX i nomi da ricordare e le date lungo le quali far scivolare a ritroso la nostra ricerca sarebbero già numerosi: Crapanzano usa questo termine nel ’73, Field nel 1960, Devereux nel 1961, Carothers nel 1953, Cunha Lopes e Candido De Assis scrivono un "saggio etnopsichiatrico" già nel 1935, Begué traccia la genesi dell’etnopsichiatria in un lavoro di Reboul e Régis del 1912 sullo stato della psichiatria nelle colonie francesi, e certo non può essere trascurato lo scritto di Brierre de Boismont, del lontano 1839, che pone in luce il nesso (vero e proprio topos della psichiatria del XIX e del XX secolo) fra civilizzazione e accresciuto rischio di malattia mentale da un lato, società primitive e relativa indennità dalla follia dall’altro. Il problema si fa ancora più intricato in ragione del fatto che ciascuno usa la definizione di etnopsichiatria come gli pare: per Devereux, ad esempio, etnopsicanalisi e etnopsichiatria erano termini praticamente sinonimi (lui che aveva avuto tanti problemi ad essere riconosciuto psicoanalista aveva forse buone ragioni personali per quest’oscillazione terminologica…)[2] , per altri (la stessa Roudinesco, ad esempio), sarebbe stato Kraepelin [3] il padre fondatore dell’etnopsichiatria, sebbene quest’ultimo non abbia mai pronunciato tale parola e sia riconosciuto piuttosto come il padre della psichiatria transculturale, soprattutto della sua anima comparativa, che avrebbe avuto in autori come Wittkover o Murphy fra i suoi più celebri eredi e in genere nei paesi anglosassoni la sua diffusione maggiore (sotto forma di psichiatria transculturale o culturale). Altri, come Tobie Nathan [4] , spingono la ricerca più lontano risalendo a Gilles de la Tourette [5] e allo studio sulla sindrome che da lui prese il nome per trovare le tracce di un’autentica istanza comparativa e culturale in psichiatria, ma per tutto il resto esplicitamente oppone l’etnopsichiatria di Devereux (e quella che egli stesso pratica) alla psichiatria culturale. Per l’importanza di questa opposizione vale la pena citare per intero il passaggio in questione:

"La psychiatrie transculturelle est, du point de vue méthodologique, en quelque sorte le symétrique de l’ethnopsychiatrie. Elle se veut une psychiatrie que l’on pourrait dire ‘culturellement éclairée’ — mais une psychiatrie avant tout ! Elle utilise les apports anthropologiques pour rendre la psychiatrie possible avec des populations que peu de choses dans leurs traditions prédisposaient à ce genre de pratiques. En vérité, cette psychiatrie consacre un lien entre anthropologie et conquête puisqu’elle demande à l’anthropologie de lui fournir les savoirs qui lui permettront de percer les défenses que ces populations opposent aux pratiques psychiatriques" [6] (corsivo nostro).

Le acque si confondono ancor più se includiamo in questa ricerca gli antenati dell’etnopsicologia (anche perché ‘antropologia’ e ‘etnologia’ o ‘psicologia’ sono termini che vedono mutare non poco nel corso del XIX e XX secolo le loro definizioni o connotazioni, in rapporto ai paesi e alle mode culturali, così come il senso del termine ‘etnopsichiatria’ muta in rapporto alla formazione di coloro che lo utilizzano: psichiatri, psicoanalisti, antropologi). A tale riguardo si dovrebbe quantomeno ricordare l’italiano Mantegazza, medico, per i suoi scritti sulla psicologia etnica (1877) o la psicologia comparata delle razze umane (si veda su questi lavori Puccini, 1991). Ma oggi, lo si deve ammettere, l’etnopsichiatria in Europa vede la sua vera e propria cerimonia di battesimo (nel senso che a questo termine ha dato il filosofo del linguaggio Kripke) e la sua definizione più autentica meno negli studi condotti in società non occidentali relativamente alla rappresentazione e alla cura dei disturbi mentali (studi che semmai ne rappresentano un’espressione particolare e che rischiano di situare l’etnopsichiatria fra le altre etnoscienze), e soprattutto con la sua dimensione clinica, caratterizzata dalla presa in carico di persone provenienti da altri contesti socio-culturali. Questa dimensione, che ne rappresenta forse uno dei profili più originali, capace di promuovere una reale autoriflessione critica spingendo gli esperti della mente ad interrogarsi in modo nuovo sui loro saperi, sulle condizioni della loro produzione, nonché sulle loro tecniche psicoterapeutiche, coincide allora, sostiene Nathan a ragione, con l’evento determinatosi con i recenti flussi migratori, le dinamiche sociali attivate da questi ultimi e le domande di cura che tanti immigrati hanno rivolto a psichiatri, psicologi e psicoterapeuti nel corso degli ultimi decenni. Parlare di migrazione apre però un discorso ancora più ampio, intriso di problemi economici e politici, e ci riconduce ad un’altra questione: quella del colonialismo.

Collignon (1995-1996), nella sua analisi dei lavori apparsi sulla rivista Annales Médico-Anthropologiques, data nel 1843 (proprio in coincidenza con la nascita della rivista) il primo esordio di un interesse per la questione della duplice alterità, quella culturale e quella psicopatologica, che sarebbe il proprium dell’etnopsichiatria e che coinciderebbe con la nascita stessa dell’illustre rivista: sulle cui pagine gli alienisti francesi cominciano ad interrogarsi relativamente all’espressione, all’incidenza e al significato delle follie d’Africa e d’Oriente. Collignon però compie un passo ulteriore: la sua riflessione sembra infatti disinteressarsi delle questioni epistemologiche che avrebbero attraversato i primi anni della ricerca etnopsichiatrica, e soltanto sullo sfondo appare la dialettica fra dimensione comparativa, transculturale (o etic) e gli approcci emic, attenti soprattutto al significato delle categorie, delle teorie e dei saperi analizzati dentro i loro contesti [7] . Collignon, ponendo in secondo piano questi aspetti e guardando piuttosto — nel solco di lavori come quello di McCulloch o di Vaughan — ad una ricostruzione storica delle istituzioni e dei discorsi sulla follia nel contesto africano [8] , fa una scelta non trascurabile che situa ogni discorso sulla cura e sulla rappresentazione dei disturbi mentali all’interno dei rapporti di forza fra potenze coloniali e popoli colonizzati. Questi rapporti di forza devono essere compresi dal momento che essi informano sin nel profondo ideologie, categorie e pratiche degli uni e degli altri, conferiscono senso o riducono la pertinenza delle strategie terapeutiche locali e alle loro concezioni del male e della cura, segnando il futuro sviluppo della professionalizzazione delle medicine tradizionali così come il significato della psichiatria asilare nei paesi africani. Quei rapporti di forza obbligano pertanto a collocare le nostre riflessione sulla follia e sulle pratiche rivolte al suo riconoscimento e controllo nei paesi africani all’interno di quella che Balandier ha definito "situazione coloniale" [9]. Se Balandier rimproverava a molti lavori antropologici di quegli anni la rimozione della questione "colonialismo", che pure si rifletteva in modo massiccio negli attori e nei processi di trasformazione sociale che gli antropologi intendevano studiare, la stessa critica poteva essere rivolta alle ricerche etnopsichiatriche che spesso trascuravano — tranne poche eccezioni, come quella di Frantz Fanon o di Octave Mannoni, autori di cui sono per altro note per altro le differenze — l’impatto della situazione coloniale sulle problematiche del disagio psichico, sulla sua espressione e sul senso dei rituali (terapeutici o d’altro tipo, ma comunque connessi alla condizione di individui e gruppi sofferenti). Vedremo più innanzi quanto la categoria di "situazione coloniale" si riveli utile nel nostro orizzonte teorico e quanto rimanga attuale per analizzare fenomeni del presente (primo fra i quali proprio la questione migratoria), ed è davvero stupefacente il fatto che molti ricercatori ignorino ancora oggi tali contributi nelle loro speculazioni su quello che è o dovrebbe essere l’etnopsichiatria.

Se guardiamo alla storia coloniale come evento di "chirurgia sociale" (Chancelé), la storia dell’etnopsichiatria sembra assumere un nuovo profilo, o meglio un diverso e più complesso ordine di intelligibilità (un ordine dal quale non possiamo prescindere). Nomi di "pioneri" controversi (come quello di Colin John Dixon Carothers) assumono in questo scenario il valore di una contraddizione lacerante relativamente a quello che è stato (o rischia talvolta di essere) l’uso della cultura in psichiatria e in etnopsichiatria. È infatti anche questo "uso" che fa problema, così come le definizione stessa del termine "cultura". Non è dunque un caso se il nome di Carothers, autore dei discussi lavori The African Mind (del 1953) o The Psychology of Mau Mau (scritto nel 1954) siano rimbalzati di recente su riviste come Transcultural Psychiatric Research Review o L’Homme, a dimostrare come questi argomenti siano tutt’altro che lontani, e a ricordarne l’uso politico: in altri termini le preoccupazioni propriamente politiche che animavano il desiderio di capire "la mente degli altri" presenti in una parte della ricerca etnopsichiatrica (Prince ammette in un suo lavoro il ruolo avuto dalla CIA nello sviluppo degli studi condotti presso la sezione di psichiatria transculturale alla McGill University, a Montreal) [10] . Procediamo con ordine, anche perché le posizioni richiamate spesso sembrano scambiarsi di posto.

Qualche anno fa Raymond Prince recensiva il libro dello storico australiano McCulloch, rivolto a indagare i rapporti fra etnopsichiatria e potere coloniale. Lo storico notava fra l’altro come con la monografia di Carothers la scienza etnopsichiatrica "entra formalmente nel dominio dell’azione politica" [11] . A McCulloch Prince riconosce molti meriti, primo fra tutti quello di mostrare le alleanze strutturali e le ambigue connessioni fra potere coloniale e psichiatria, ma sembra introdurre un giudizio più sfumato e tutto sommato benevolo verso il pioniere Carothers, accolto fra le stanze di un certo relativismo storico: "Per quanto mi riguarda, posso consolarmi solo pensando che il nostro campo disciplinare, che deve fare i conti con questioni centrali e tuttavia così intangibili come la coscienza, la mente, il libero arbitrio e la responsabilità, si trova particolarmente esposto a frequenti e radicali mutamenti di opinione. Nel nostro campo posizioni che oggi sono politicamente corrette possono diventare domani un anatema". Prince sembra dunque propenso ad accogliere anche le discutibili idee di Carothers come un’espressione del suo tempo, sottolinea come non sia legittimo qualificare di razzista il suo atteggiamento (Carothers stesso rifiutò con vigore questo giudizio, e bisogna riconoscergli il merito di una costante cautela argomentativa nel trarre conclusioni dagli studi anatomici sulla corteccia cerebrale di Vint o esprimere ipotesi sulle differenze della "mente africana" o sulle presunte peculiarità degli africani); tuttavia Prince [12] sembra dimenticare che a quelle idee, in quegli stessi anni, altri autori, altri fatti e visioni della storia, altre analisi si opponevano in modo radicale, in particolare a modelli come quelli di Carothers, Wilkinson, Kirby ed altri che vedevano solo comportamenti "isterici", "dissociati", o primitivi in critiche del potere coloniale o nella sofferenza psichica dei colonizzati. La posizione espressa da Carothers sui Mau Mau, il movimento nazionalista reinterpretato (come i rituali e i giuramenti ai quali si sottoponevano i suoi appartenenti) in chiave psicopatologica, diventa così illuminante per comprendere come la psichiatria raddoppiasse, nel contesto coloniale, la sua funzione di controllo sociale, come (assunto il profilo di una "etnopsichiatria" invero singolare e al servizio del governo britannico) riconducesse dinamiche storiche, scontri politici e atti provvisti di una consapevole intenzionalità distruttiva a modelli "sintomatici" di dipendenza dalla figura del colono o a espressione dei conflitti derivanti dall’accelerata trasformazione dei tradizionali modelli culturali, della transizione, in particolare di quella "psicologia della foresta" che sarebbe stata caratteristica del popolo kikuyu verso i nuovi pattern di origine europea. Qui di seguito ricordo solo alcuni brevi passaggi del lavoro di Carothers, che bene esprimono questa preoccupazione di comprendere la peculiarità dei Mau Mau perché potesse essere meglio controllato il movimento di opposizione politico che in esso si esprimeva, infondendo in un denso discorso paradigmi evoluzionistici, pregiudizi issati allo statuto di teorie scientifiche, definizioni della cultura kikuyu o africana tout court..

"Questo rapporto è stato scritto in risposta alla richiesta di vedere come qualche esperienza in Africa ed alcune conoscenze in psicologia e in psichiatria possano gettare luce sul movimento dei Mau Mau in questa Colonia e possano indicare soluzioni per questo problema, nei suoi aspetti immediati come in quelli a lungo termine" (Carothers, 1954, p.1).

Così esordisce il breve saggio di Carothers, destinato a portare il suo contributo insieme a quanti (come il Committee to Inquire into the Sociological Causes and Remedies for Mau Mau) cercano di illuminare quella che con un perfetto eufemismo viene denominata la situazione di "emergenza" determinatasi in Kenia, e prosegue:

Quali sono le circostanze che hanno dato origine al movimento dei Mau Mau? (…) Questo movimento sorse dallo sviluppo di una situazione conflittuale e ansiogena in persone che, a partire dal contatto con una cultura straniera, hanno perduto l’appoggio e le influenze vincolanti della loro propria tradizione ma non i loro modi di pensiero "magici" (ivi, p. 15).

Come possono essere liberate queste persone dai loro giuramenti rituali (di appartenenza al movimento, n.d.a.)? (…) La naturale facilità di molti africani ad esperire una dissociazione, per vivere due o più vite incompatibili alternativamente, è oggi aumentata (…) Rimane da aggiungere che gli aderenti più intellettuali e i leader dei Mau Mau (…) sono probabilmente più recalcitranti. Alcuni sono semplicemente criminali psicopatici che non si avvantaggeranno in alcun modo dall’esperienza (di rieducazione, n.d.a.) (ivi, p. 19).

E quasi anticipando i compiti e i discorsi di molti esperti contemporanei chiamati a intervenire negli scenari di guerra, aggiunge (chissà perché non distinguendo fra il suo essere psichiatra e l’essere psicologo) la seguente osservazione:

"La condotta di una campagna militare è chiaramente al di là dei termini di riferimento di questo rapporto. Tuttavia vi sono aspetti che non possono essere del tutto ignorati da uno psicologo (ivi, p. 21).

In modo a dir poco ipocrita, rispondendo alla domanda se possano esserci fra i Kikuyu individui "leali", lo psichiatra Carothers scrive ancora che la lealtà verso un regime può esserci solo quando quest’ultimo incarna alcuni dei propri interessi: ora, annota l’autore, "sembra che i Kikuyu non vedono il Governo Britannico in questa luce; essi lo percepiscono come qualcosa di estraneo che vuole mantenerli soggiogati" (ivi, p. 19; nostro corsivo). Ben più che una percezione, questa era però la bruta realtà della situazione coloniale: e la soluzione suggerita fra le raccomandazioni del rapporto da Carothers (nota come villagization) aveva proprio il chiaro intento di contribuire a governare e controllare il conflitto che avrebbe portato presto all’indipendenza.

Forse Carothers non è sempre, in ogni passaggio delle sue tesi, "razzista"; da buon psichiatra sa utilizzare appropriate circonlocuzioni, assunti diagnostici o riferimenti alla cultura per dissimulare o neutralizzare altri conflitti (sociali e razziali, in primo luogo) al di sotto di un velo che, per quanto sottile, sembra poter attenuare violenze, rancori, effetti della repressione, frustrazioni, rinviando così a costituzioni della persona, tradizioni, rituali: categorie prese a prestito dal lessico dell’antropologia. Questa "etnopsichiatria" è inquietante perché animata da interessi politici, da istanze di controllo, e forse ben più minacciosa nei suoi riflessi di quello che per un altro antropologo sembra essere il limite fondamentale: una "concezione razziale della cultura" [13] . Carothers resta in definitiva un "pioniere della psichiatria transculturale" del quale faremmo volentieri a meno. Fermiamo la nostra attenzione per un istante su questo aspetto: la "cultura", il confronto fra culture locali e culture straniere, sono stati utilizzati per dissimulare o ridefinire come culturali conflitti e comportamenti che sono di altra origine, o quanto meno hanno anche altre radici, prima fra tutte quella del dominio coloniale. Questo (ab)uso del termine "cultura" rappresenta qui il problema maggiore.

Questa premessa era necessaria perché a Carothers è stata appaiata, per molti di noi in modo sorprendente, la figura di Tobie Nathan: l’etnopsicanalista allievo di Devereux, che da anni, prima a Bobigny, poi al Centre Devereux (Université Paris VIII), ha costruito una delle più originali pratiche e teorie etnopsichiatriche. Il parallelo, suggerito da Didier Fassin giunge alla fine di un periodo nel quale Nathan è stato oggetto di aspre critiche in rapporto a taluni presunti giudizi espressi sulle pratiche di circoncisione femminile o, più in particolare, per l’uso non dichiarato di fonti etnografiche.

Il dibattito fra etnopsichiatria, antropologia e psicanalisi: un dialogo incompiuto.

Vogliamo isolare qui brevemente tre aspetti a partire dai quali, a nostro giudizio, hanno preso origine sospetti e dissidi (o quanto meno una parte di essi), e sui quali noi stessi vogliamo esprimere la nostra posizione.

a) Che cosa intendiamo per appartenenza culturale, per identità culturale? come definiamo i "mondi culturali"? Paradossalmente, come per uno dei tanti chiasmi epistemologici che caratterizzano l’etnopsichiatria, sembra che gli antropologi rimproverino a Nathan di usare questi termini nel senso che spesso fu proprio di una certa etnologia: e cioè come mondi chiusi, delimitati da confini che rendono impossibile la traduzione, cristallizzatisi intorno a nuclei originari e immutabili (di miti, di teorie, di rappresentazioni). D’altronde fu ed è ancora di una certa antropologia uno sguardo nostalgico sulle culture minoritarie o sulle società tradizionali spazzate via o in "pericolo di estinzione" per effetto dei devastanti processi della mondializzazione economica e della modernizzazione: uno sguardo che si erge a loro difesa, e con il quale non si può non essere d’accordo, che però rimane spesso incapace di tradursi in agire concreto.

Le logiche della solidarietà economica e della dipendenza familiare, insieme ai (spesso faticosissimi) vincoli comunitari, sono stati di fatto dissolti nelle società tradizonali in pochi anni senza che altro venisse promesso se non il trionfo di un individuo che si trova oggi - malgrado l’autonomia e la libertà realizzate - spaesato e disorientato, assediato dalla minaccia della solitudine e del fallimento dei suoi progetti economici. In un libro di quasi trent’anni fa, alcuni antropologi francesi indagavano il senso dei culti profetici e delle nuove chiese africane (sullo sfondo dello Harrismo veniva in particolare studiata la dinamica della comunità di Bregbo nella Costa d’Avorio del "miracolo economico"), e cercavano di comprendere la portata sociale e psicologica di queste complesse trasformazioni che vedevano affiorare parallelamente sentimenti nuovi di sé e distruttivi sensi di colpa: l’atomizzazione sociale che si era prodotta si mostrava nell’epidemia di un disagio dalle forme sino ad allora sconosciute, nelle confessioni pubbliche di atti diabolici e di colpe efferate commessi ai danni degli altri, e nella conseguente richiesta di espiazione che Atcho, il profeta, prometteva sotto lo sguardo vigile (e talvolta complice) della nuova élite al governo. Più recentemente, in un libro non meno intrigante (Comaroff e Comaroff, 1993), le accuse o i sospetti di stregoneria che crescono in Africa (e "migrano" insieme alle donne e agli uomini di questo continente) vengono analizzate in riferimento agli sconvolgimenti economico-sociali e ai mutamenti nei rapporti di genere che caratterizzano paesi come il Togo, il Burkina Faso o la Nigeria. I conflitti per l’egemonia culturale ed economica, i processi di dolorosa mimesi e le masse di perdenti che i processi della globalizzazione economica vanno accumulando ai loro lati, sono dati difficilmente confutabili e determinano sofferenza psichica (o, se preferite, "malattia mentale"), solitudine, desocializzazione, morte: e tuttavia bisogna che queste analisi siano rigorose per non scivolare, quasi impercettibilmente, nelle stesse conclusioni di un tempo (e di autori come lo stesso Carothers) che vedevano l’Africano incapace di resistere a questi sconvolgimenti, vittima per eccellenza dei processi della modernità ai quali non avrebbe potuto opporre altro che conati di magia, di stregoneria, di violenza rituale o di depressione. Forse sin quando resteremo nelle maglie di una psicologia adattiva (che Moghaddam oppone ad una psicologia generativa di cambiamenti, individuali come sociali e interpersonali), sarà difficile evitare fraintendimenti a tale riguardo, primo fra tutti quello che concerne l’idea di una intoccabilità delle culture.

Onde evitare malintesi aggiungo subito che non sostengo la staticità dell’identità culturale o della cultura (qualunque cosa essa sia, essa non può essere immaginata — ha sostenuto Edward Said — come un "mondo apollineo" e privo di conflitti), e mi è ben presente il carattere fittizio della continuità storica o delle stesse comunità culturali, ciò che numerosi autori hanno sostenuto. Non diversamente devono essere tenute presenti le derive di tanti movimenti politici di rivendicazione delle identità culturali, nati in seno a minoranze che hanno inventato, o costruito se si preferisce, tradizioni e identità senza nessun "legittimo" riferimento a tratti preesistenti (sto pensando ad un’immagine ripresa dalla Mostra della National Arts School of Papua New Guinea, Adelaide, 1978, e riportata nell’articolo di Wittersheim: dove un aborigeno è ritratto all’interno di un barattolo sotto vuoto, mentre sotto campeggia la domanda: "Preserving Culture?") [14] . E tuttavia queste finzioni sono serie, terribilmente serie; ciò che esse esibiscono non sono solo artefatti contingenti, manipolazioni occasionali o nostalgiche riproduzioni ma il prodotto di relazioni storiche, di conflitti ideologici e simbolici, di lotte di dominio, di colonizzazioni (materiali e mentali): in questi conflitti, nelle tragiche (e talvolta grottesche) ridefinizioni identitarie di cui testimoniano, agiscono lotte di corpi e di comunità, non solo di epistemologie o di divinità [15] . Di queste lotte sono protagonisti, ben prima dei discorsi antropologici, gli "altri": aborigeni, immigrati, minoranze, sul cui destino, sui cui rischi di sopravvivenza schierarsi è urgente.

Avendo tutto ciò ben presente nella nostra pratica clinica e nella nostra ricerca, possiamo procedere forse con maggiore consapevolezza fra questi mondi, fra queste appartenenze e queste identità: serie e fittizie ad uno stesso tempo; necessarie, irriducibili eppure provvisorie, o addirittura intollerabili, come può accadere per ogni vincolo (necessità e fastidio dell’attrito, senza il quale, come la fisica c’insegna, i corpi scivolerebbero senza mai arrestarsi…). Radicati in miti lontani o inventati a partire da materiali spuri e recenti, "originari" e "contaminati" ad uno stesso tempo, questi mondi tuttavia generano strategie, interessi, sentimenti irrazionali di appartenenze mutevoli, forme impreviste di coerenza o di resistenza [16] . Ma a guardar bene, nessuna cultura, nessun mito si pensa puro e autonomo ab origine. Non c’è, infatti, cultura o mito che non rinvii sin dai suoi primi passi all’intervento di un Altro, di uno Straniero; non c’è rituale iniziatico che non ricordi la necessità di questa presenza, che non ricorra al gesto o alla parola di un Dio, di un alieno o di uno Straniero per spiegarne l’origine. Questi eventi "originari" sono poi incorporati facendosi, già nell’istante successivo, principi fondatori di una differenza perenne (ciò che noi poi chiamiamo ‘cultura’, ‘mondo culturale’ o altro). Questa dialettica, ricordata costantemente da Nathan, assunta da Amselle, M’Bokolo, Christian ed altri autori nella loro critica contro le rivendicazioni di identità etniche che si rivelano poi, ad un attento esame storiografico, come il frutto tragico delle politiche di delimitazione territoriale adottate dai poteri coloniali (bisognosi di istituire alleanze e distinzioni), deve essere ben presente a noi nei suoi radicali individuali (psichici) quanto sociali (etnici, nazionali, ecc.), cioè a dire nei suoi effetti. Tale dialettica costituisce infatti una sorgente di interrogativi ineludibile, che si sia antropologi o clinici: a partire dal fatto che, pur essendo state inventate, pur essendo oggi confutate da brillanti decostruzioni, queste identità producono comunque effetti materiali e simbolici, rappresentazioni generatrici esse stesse di ulteriori conseguenze. La sfida che essa pone è la seguente: liberarsi dall’ossessione delle origini (ossessione che nella psicosi forse rivela la sua cifra più tragica) non significa ignorare quanto tale domanda abbia importanza né quando essa prende forma. Se si è d’accordo con questo assunto, e tanto Nathan [17] quanto i suoi critici sembrano condividerlo senza riserve, dove nascono gli equivoci?

b) I mondi culturali, nella loro costitutiva contraddittorietà, come interagiscono reciprocamente? Sembra qui di assistere a un gioco in cui la regola paradossale è che ciascuno dei partecipanti offra all’avversario il fianco: perché è vero che Nathan talvolta pare immaginare dei mondi culturali chiusi come uova, ciò che non possiamo condividere, "completi, non necessitanti di alcuna interpretazione supplementare che provenga da un altro mondo" [18] . Ad una tale conclusione giungeva d’altronde proprio buona parte di quell’antropologia che Nathan ha posto, a ragione, a oggetto sistematico delle sue critiche. Perché non condividiamo in questo caso l’affermazione dei due autori? Perché di quelle interpretazioni (erronee o parziali, ingenue o incomplete, interessate o oneste che siano) gli universi culturali e i loro attori umani sembrano costantemente doversi nutrire, ed è come se essi ne avessero bisogno, terribilmente bisogno. Dico questo pensando non solo ai frutti puri che impazziscono, per ricordare il celebre lavoro di Clifford Geertz, non solo all’incorporazione dell’alterità fra gli strati più profondi delle pratiche culturali (rituali, canti esoterici, miti di fondazione, ecc.) ma anche agli immigrati in carne ed ossa incontrati nel corso di questi anni e che con le loro biografie paiono incarnare questa ricerca attiva di altri universi, significati, interpretazioni [19] . Queste donne e questi uomini, che si situano nel mezzo di una ricerca incessante di un senso delle proprie appartenenze e dei contraddittori legami con la propria famiglia e la propria terra, mostrano anche una sofferenza, una inquietudine particolari. Messe da parte le ragioni economiche e sociali, le violenze e i conflitti che hanno contribuito a generarle e che non devono mai essere trascurati (nel senso che non possiamo evitare di pensare a tutto questo nel nostro dispositivo di cura e per ciò stesso non possiamo evitare di agire su essi), quella sofferenza e quell’inquietudine rivelano come la fatica di costruire una giusta relazione fra sé le proprie identità, o meglio una giusta distanza fra il mondo del presente e quello degli antenati, fra i propri desideri e le attese della famiglia, fra la volontà di autonomia e vincoli opachi ma non meno forti: una distanza che è impossibile costruire nella solitudine (psicologica, simbolica o epistemologica), e che necessita pertanto anche di quel confronto ininterrotto, di quello specchio irrinunciabile che è l’interpretazione e lo sguardo dell’altro (società ospite o clinico che sia, con le proprie epistemologie, con le proprie antropologie e i propri valori etici, con i propri codici sessuali e i particolari assunti religiosi, e altro ancora).

Le molte identità di cui ciascuno è portatore (fra cui quella culturale) possono dunque comporsi in un equilibrio armonico solo grazie a questi scambi, a questi riconoscimenti, a queste dinamiche. Superfluo ricordare che questo gioco è immerso, dal suo inizio, in una reciprocità totale: interpretati lo siamo entrambi, noi e loro, loro e noi, i nostri mondi: con rapporti di senso che inevitabilmente riflettono (e amplificano, se così si può dire) soggiacenti rapporti di forza.

c) In definitiva, quale statuto assegnare alle produzioni culturali nello psichismo e nelle strategie psicoterapeutiche? Nathan, oggetto di strali velenosi da parte di molti antropologi, non fa d’altronde che ripetere contro una certa antropologia le critiche che essa stessa ha rivolto contro di sé negli ultimi decenni (contro una ricerca oggettivante e distanziante, che giungeva a inventare il suo Altro, la sua Cultura, le sue tradizioni e le sue presunte credenze per poi reificarle come puri oggetti da museo, e che ignorava assai spesso le condizioni materiali di produzione del suo stesso sapere). Ma al tempo stesso egli fa di più. Nathan e Hounkpatin sembrano accusare l’antropologia di mancanza di immaginazione, di una sorta di incapacità di andare sino in fondo: "Questa etnologia noi la consideriamo un’opera romanzesca, ma senza il coraggio della sua stessa immaginazione (…) Descrivere dei mondi è agire su essi così come essere agiti da questi stessi mondi! È dunque cruciale identificare la nostra azione" (ibidem). Sembra così che il terapeuta (o meglio: l’etnopsicoterapeuta), proprio in virtù del suo dichiarato e consapevole agire, sia meglio e più coerentemente situato dell’antropologo [20] nel suo lavoro con l’alterità culturale: e questo può generare, ammettiamolo pure, qualche frizione fra i membri di una disciplina che si sente di colpo come oscurata nella sua pretesa di egemonia. Ora è di questo lavoro però che bisogna dire qualcosa, ma prima sostiamo ancora per un istante su tale domanda: perché stupirsi del fatto che l’etnopsichiatria voglia "farsene" davvero qualcosa dei diversi modi di pensiero, dei differenti sistemi di ragionamento (Young), delle particolari pratiche del corpo o delle singolari teorie della malattia e della cura di altre società, delle metafore di altre lingue e di quelle relazioni con il mondo metaempirico non sempre riconducibili alle categorie dominanti nel nostro mondo occidentale (comprese quelle che rinviano al solo "ordine religioso")? Pare che una parte dei conflitti fra l’etnopsichiatria del Centre Devereux e gli antropologi (o gli psicanalisti: di cui diremo fra poco) derivi proprio dal fatto che Nathan porti sino alle estreme conseguenze quelle che, nelle diverse etnografie, potevano essere più o meno accettabili e condivise descrizioni di alterità lontane (epistemologiche, morali, cognitive o d’altro genere). Una volta, nel corso di un seminario, Pier Francesco Galli, intervenendo sul modello di lavoro attuato presso il Centro Frantz Fanon mi diceva che bisognava passare da parte mia — assumendomene tutta la responsabilità — ad una fase di fondazione tale che, nella clinica degli immigrati provenienti da quei paesi, differenti concezioni dello psichismo, dell’invisibile, della persona, degli affetti o dei corpi trovassero la loro esplicita e concreta traduzione in strumenti terapeutici e in teorie della sofferenza [21] . Non è ciò proprio quello che fa da anni l’etnopsichiatria di Nathan, utilizzando con rigore (ma sino in fondo, nella presa in carico di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana o dal Magreb) quanto gli antropologi avevano scritto su queste popolazioni? O dovremmo immaginare come di colpo depotenziate a residue credenze in via di esaurimento, avvizzite dal solo contatto con l’aria fredda (e la razionalità psicologica) di città come Londra, Parigi o Torino quelle istituzioni, quelle parole, quelle forme di vita sulle quali gli antropologi avevano profuso fiumi d’inchiostro? La questione, al fondo, potrebbe essere dunque così ridefinita: che ruolo attribuire nell’etnopsicoterapia a djinns [22] , "spiriti dell’acqua" [23] , esperienze di possessione, sospetti di stregoneria, appartenenze a confraternite? [24] Credenze da lasciar "naturalmente" impallidire una volta che siano ricondotte fra le nostre più familiari categorie di "isteria", "bouffée delirante", "proiezione", ecc.? [25] . Credo che bisogna assumere per intero, al contrario, la natura di veri e propri dispositivi teorici di quelle categorie, di quegli esseri, delle esperienze di cui nel nostro lavoro clinico e di ricerca siamo costantemente testimoni. In riferimento alla possessione ho utilizzato la definizione machine à penser, ispirandomi all’analoga espressione di Adler e Zempleni per descrivere la divinazione fra i Mundang del Chad, e di machine à communiquer (fra generazioni, fra membri della famiglia o della coppia, dunque fra lignaggi), ricordando i lavori di Lambek sulla possessione nelle isole di Mayotte; ho inoltre ipotizzato, con altri ricercatori, che la possessione rappresenti un formidabile dispositivo mnemotecnico (una forma altra di coscienza storica)[26] . Nathan definisce da parte sua i djinns come una machine (egli prende a prestito questa espressione dai filosofi Deleuze e Guattari) [27] . Possiamo accontentarci qui di riconoscere proprio in questa loro natura di strategie per pensare il reale e l’esistenza, di dispositivi atti a ri-pensare (dunque trasformare) e interpretare il mondo, i rapporti, i vissuti, i vincoli della vita quotidiana, uno dei tratti peculiari, forse quello più decisivo, delle categorie e delle eziologie che definiamo abitualmente come "tradizionali": dunque, ancora una volta, non semplici credenze ma sofisticati dispositivi retorici, strategie cognitive con le quali (in quanto terapeuti) fare i conti sino in fondo. Ciò che non esclude l’assunzione di una responsabilità, o se si preferisce di una certa dose di rischio…

Come obbligarsi a ripensare la cura e la cultura.

La nostra idea di "cultura" e di "identità culturale" riconosce a queste espressioni le seguenti caratteristiche:

 

  • la mancanza di armonia, compattezza, staticità,
  • la presenza di una costante conflittualità, e la lotta fra i suoi attori per l’esercizio di un’egemonia (di senso, di valori, ecc.),
  • la difficoltà o l’impossibilità per la totalità dei suoi membri di riconoscervisi, ciò che accade spesso per effetto di forze esterne che svalutano il senso o erodono attivamente il grado di pertinenza simbolica delle culture,
  •  

  • l’essere percorse da una inquieta dialettica fra adesione e ribellione alle sue norme, dialettica dalle infinite espressioni, come le vicende degli immigrati illuminano in modo esemplare,
  •  

  • l’incessante creolizzazione e contaminazione dei suoi materiali (miti, lingua, rappresentazioni, comportamenti, ecc.),
  •  

  • il ruolo decisivo di strategie di occultamento e di finzione, operanti allo scopo di riprodurre poteri e gerarchie.

  • Se siamo disposti a condividere questi caratteri della cultura e dell’identità culturale, dovrebbe essere però altrettanto chiaro che il lavoro clinico con pazienti immigrati provenienti da altre società, da altri universi simbolici, se non può limitarsi a ricondurre sempre al loro mondo culturale le ragioni della sofferenza o in esso soltanto reperire le soluzioni terapeutiche del disagio psichico di cui sono portatori (tanti sono i casi particolari, le ibridazioni, le transizioni, ecc.), non può nemmeno accettare che i materiali costitutivi delle culture di appartenenza siano immaginati come navi alla deriva o relitti affondati nell’oceano della modernità.

    L’etnopsichiatria, in ragione del suo interrogarsi sulle culture (qui e altrove), sul rapporto fra cultura e psichismo, ma soprattutto sulla legittimità dei saperi occidentali nell’intervento terapeutico a favore di immigrati, costringe dunque non solo a ripensare il senso della cura e il grado di adeguatezza dei modelli psicoterapeutici occidentali, ma più in generale quali siano le "politiche della cultura" [28] più appropriate. In Francia, il dibattito sulla legittimità o meno ad indossare l’hijab, esploso alcuni anni fa, non è molto distante da quanto stiamo dicendo, e si avvita per di più in modo quasi paradossale a questioni dolorose come lo statuto sociale della donna e le violenze di cui è oggetto nel mondo intero. In Italia, le assurde (o semplicemente fasciste) posizioni espresse da autorevoli rappresentanti della Chiesa Cattolica a proposito dell’eccessiva presenza di musulmani immigrati nel nostro paese (una presenza che si vorrebbe dunque controllare, e ridurre, o chissà: governare attraverso azioni di conversione…) evocano la non meno complessa vicenda dell’appartenenza religiosa. In Germania, gli immigrati curdi o mozambicani e i Rom morti per atti di razzismo ricordano, tragicamente, come discutere sulle appartenenze etniche o culturali, sulla maniera in cui le società ospiti o le loro istituzioni interagiscono con gli stranieri, non è questione puramente antropologica o epistemologica. Lo sviluppo del razzismo ha prodotto, sempre in Francia, una singolare torsione epistemologica collocando alcuni teorici razzisti in una posizione "relativistica", ossia vicini a coloro che sostengono l’incommensurabilità fra mondi culturali diversi: per i razzisti ciò significa che questi mondi, concepiti alla stregua di ghetti chiusi in se stessi e autonomi, vanno tenuti ben distinti, proteggendo il "nostro" da ogni possibile contaminazione (si è parlato infatti di razzismo differenzialista, e i lavori di Taguieff o altri possono essere consultati a questo riguardo).

    Nel momento in cui si toccano questioni come quella dell’identità culturale, ci si trova pertanto immersi, sin da subito, e indipendentemente dal ruolo che si occupa, in un dibattito che è tutto politico. Chi rivendica la necessità di difendere le appartenenze, limitando la pretesa universalistica dei nostri strumenti teorici (interpretativi, terapeutici, ecc.), può pertanto rischiare di essere malgré lui situato accanto ad ignobili personaggi, o in compagnia di teorie etnopsichiatriche nate in seno alla psichiatria coloniale (ciò che è accaduto appunto a Nathan: "de Mathari à Saint Denis", scrive Fassin [29] nel lavoro già citato, affiancando così Carothers e l’ospedale Mathari di Nairobi dove egli lavorò a lungo al Centre Devereux, situato nel quartiere di Saint Denis, a Parigi, e accusando quest’ultimo di partecipare ormai di fatto, con i suoi interventi, al governo dei problemi e dei conflitti sociali generati dalla massiccia presenza di immigrati). Alcuni singolari usi della "cultura" (quale appunto quello di Carothers), o alcune affermazioni provocatorie (e Nathan non manca certo di fantasia né risparmia generalizzazioni), facilitano il malinteso: ma chi difende i corpi e la libertà psichica degli immigrati, chi vuole combattere contro una strisciante e perdurante "colonizzazione culturale" (esercitata anche attraverso l’uso massiccio delle categorie della psichiatria occidentale, e statunitense in particolare), non merita simili giudizi. Devo aggiungere inoltre che i critici di Nathan, tranne rare eccezioni, poco s’interrogano su ciò che egli in concreto fa con i pazienti che incontra: su come, in altri termini, il lavoro della sua équipe lenisca le sofferenze psichiche e risponda alle domande di cura utilizzando appartenenze culturali, miti, metafore come originali "leve terapeutiche". Ne sembrano interrogarsi sugli effetti dissolutivi che le sue critiche producono nei riguardi delle attitudini tassonomiche della psichiatria contemporanea o del reiterarsi di modelli psicologici estenuati del sintomo e della cura.

    Nel Centro Frantz Fanon tali problemi sono ben presenti, e per evitare simili o altri equivoci mi sembra necessario costruire una etnopsichiatria comunitaria capace di saldare il suo lavoro teorico e clinico con una strategia più complessiva di alleanze con altri gruppi, istituzioni, soggetti, saperi (e, quando necessario, criticare le loro azioni o i loro progetti teorici). Quello che si fa nelle stanze dell’etnopsichiatria non ha, nell’orizzonte che stiamo tracciando, nuances esotiche o misteriose: è semplicemente la pretesa di continuamente inventare strategie, lingue, obiettivi, tecniche. Con un primo ma irrinunciabile presupposto: abdicare alla reiterazione estenuata dei nostri modelli interpretativi e terapeutici. Qui ritengo di poter incontrare il favore anche di quegli psicanalisti e psicoterapeuti che non si sono mai stancati di interrogare criticamente le loro teorie, i loro maestri, le loro scuole, e che non prendendosi cura di pazienti immigrati esprimono implicitamente la consapevolezza dei limiti dei propri strumenti. Ma è importante ricordare brevemente, per l’economia del nostro discorso, ancora due questioni.

    La prima è rappresentata dalla necessità di riconoscere che le dinamiche culturali non solo soltanto ad un senso, gli altri non sono solo influenzati, colonizzati, presi nella spirale di un’adesione mimetica ai modelli egemoni. Nella recente polemica sulla teoria del dono e dello scambio in Oceania, antropologi come Sahlins e Thomas si confrontano proprio su questo aspetto, e mi sembra importante ribadire la necessità di concepire le culture come soggetti multiformi, dinamici, ma anche attivi: Beggars can be Choosers, titola significativamente un recente lavoro di Thomas, il quale potrebbe offrirci la metafora appropriata per ri-pensare anche le culture e le minoranze o le loro strategie di addomesticamento della modernità come un ulteriore argomento da includere nella pratica e nella teoria etnopsichiatrica [30] . Fra questi modelli l’etnopsichiatria critica alla quale da tempo lavoro trova altre risorse, nuove domande, forse altri alleati: ciò che mi sembra necessario per uscire da quella che potrebbe sembrare una polemica dai confini francesi e che rinvia invece a questioni ben più complesse [31] .

    La seconda questione riguarda le pratiche della circoncisione femminile. Qui il problema della violenza sui corpi (anche quando essa viene presentata come partecipante alla costruzione dell’identità di genere) prende ancora una volta un’allure insieme ideologica, politica, antropologica, economica e, per finire, etnopsichiatrica. Polemiche e malintesi ulteriori si sono originati da tali problemi, che hanno fatto invocare il diritto d’interdire [32] pratiche la cui oscura violenza, presente a tutti e da nessuno tollerata, si situa però all’interno di una più complessa ideologia della violenza e dell’inganno contro la donna, un’ideologia non sempre indagata con il rigore che meriterebbe e alla quale non è estranea anche una contraddittoria dimensione di consenso (ciò su cui Maurice Godelier invita con forza nei suoi scritti a riflettere).

    Questi due riferimenti non hanno certo la pretesa di concludere il nostro discorso. Semplicemente essi lo ancorano alla recente evoluzione del dibattito che anima, spesso in modo convulso e imprevisto, le domande sullo statuto epistemologico, le strategie o le finalità dell’etnopsichiatria. E lo ancorano ponendo l’accento su un principio: non è possibile assumere in modo appropriato le politiche dell’etnopsichiatria ad oggetto di critica o di riflessione se non dopo aver allargato l’orizzonte dei nostri interrogativi e indicato quale politica della cultura si voglia perseguire ed affermare.

    Notes

    [1]. Nathan T., 2000, L’héritage du rebelle. Le rôle de Georges Devereux dans la naissance de l’ethnopsychiatrie clinique en France,"Ethonopsy. Les mondes contemporains de la guérison", 1, p. 197.

    [2]. Cfr. Roudinesco E., 1998, Prèface a G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des plaines. Réalité et Rêve, Fayard, Paris.

    [3]. Kraepelin E., 1904, Vergleichende Psychiatrie, "Centralblatt für Nervenheilkunde und Psychiatrie", pp. 433-437.

    [4]. Nathan T., 1990, Angoisse ou frayeur. Un problème épistémologique de la psychanalyse, "Nouvelle Revue d’Ethnopsychiatrie", 15, pp. 21-38.

    [5]. Gilles de la Tourette, 1885, 1885 Etude su une affection nerveuse caractérisée par de l’incoordination motrice accompagnée d’écholalie et de coprolalie (Jumping, Latah, Myriachit), Archives de Neurologie, tome 9, pp. 158-200.

    [6]. Nathan T., 2000, Psychothérapie et politique. Les enjeux théoriques, institutionnels et politiques de l’ethnopsychiatrie, "Genèses", 38, p.136-159.

    [7]. Sulla dialettica fra approcci emic ed approcci etic si veda la recente messa a punto di Olivier de Sardan, Émique, "L’Homme", n. 147, pp. 151-166.

    [8]. Cfr. Collignon R., 1997, Aliénation mentale et altérité du sujet colonial: de quelques difficultés de l’émergence d’une relation thérapeutique basée sur le dialogue en Afrique, in R. Beneduce, (a cura di), Saperi linguaggi e tecniche nei sistemi di cura tradizionali, L’Harmattan, Torino, pp. 71-88.

    [9]. Balandier G.., 1955, Sociologie actuelle de l’Afrique noire. Dynamique sociale en Afrique Centrale, PUF, Paris.

    [10]. Prince R., 1995, The central intelligence agency and the origins of transcultural psychiatry at McGill University, "Annals of the Royal College of Physician and Surgeons of Canada", 28, pp. 407-413.

    [11]. McCulloch J., 1995, Colonial Psychiatry and ‘the African mind’, Cambridge Univ. Press, Cambridge.

    [12]. Cfr. Prince R., 1996, Pioneers in Transcultural Psychiatry: John Colin D. Carothers (1903-1989) and African Colonial Psychiatry, "Transcultural Psychiatry Res. Review", XXXII, 2, pp. 226-240.

    [13]. Fassin D., 2000, Les politiques de l’ethnopsychiatrie. La psyché africaine, des colonies africaines aux banlieues parisiennes, "L’Homme", 153, 231-250.

    [14]. Wittersheim É.,2000, Les chemins de l’authencité. Les anthropologues et la Renaissance mélanésienne, "L’Homme", n. 151, pp. 181-206.

    [15]. Testimonianza esemplare, all’origine di un dibattito che certo va ben al di là della mera questione filologica, è la questione del nome di colui che tanto lavorò sul concetto di identità etnica definendola come una camicia di forza quando intesa come unico tratto nel quale riconoscere l’Altro. Giorgy Dobo, questo il vero nome di Devereux, nacque nel 1908 a Lugos (Transilvania), nella provincia di Banat, allora ungherese. Quando quest’ultima fu annessa alla Romania nel 1919 il suo nome cambiò una prima volta: Gheorghe in luogo di Giorgy. Con la sua infanzia egli manterrà un rapporto ambivalente, caratterizzato soprattutto dalla voglia di partire. Stabilitosi in Francia, non molto tempo dopo il suicidio del fratello Istvan, cominciò a studiare chimica seguendo le lezioni di Marie Curie, ottenne poi un diploma presso l’École des langues orientales e un altro presso l’Istittuto di Etnologia. Ma nei suoi primi articoli in inglese pubblicati sull’American Anthropologist egli muta nuovamente il suo nome in quello di George. Nel 1933 egli ottiene dalla Romania, con un decreto del Ministero di Giustizia, il diritto di cambiare il proprio patronimo, che sarà d’ora innanzi quello di George (o Georges) Devereux. Secondo alcuni, questo cognome sarebbe stato preso a prestito da Morton Devereux, personaggio del romanzo di George Bulwer Lytton (Devereux, del 1852), che lo descrive come un uomo geloso del fratello gemello, che si percepisce pigro, odioso e poco intelligente. Per Roudinesco la dimensione autobiografica di questa scelta fa tutt’uno con la questione al centro della riflessione e della duplice attitudine di Devereux sull’identità: rinuncia e mascheramento parteciperebbero entrambe della difesa contro l’annientamento, e l’identità assume pertanto lo statuto di un oggetto ambiguo (difensivo e offensivo ad uno stesso tempo), aspetto vulnerabile ma al tempo stesso necessario perché ci si possa mascherare, mimetizzare, sia per restare invisibili quanto per meglio attaccare: "La coloration protectrice du tigre ou du léopard le cache à la fois de ses ennemis et de sa proie" (Devereux, cit. in Nathan T., 1996, Préface à l’édition française di G. Devereux, Ethnopsychiatrie des Indiens Mohaves, Sinthélabo, Paris.; Roudinesco E., 1998, Prèface a G. Devereux, Psychothérapie d’un indien des plaines. Réalité et Rêve, Fayard, Paris, p. 8). Ma per Nathan, che sembra ignorare il riferimento al personaggio di Lytton, il mutamento del patronimo ha un’altra e più complessa ragione, mascherata e rivelata ad uno stesso tempo: evereu, in romeno, significa ebreo, e pertanto quel suffisso la cui pronuncia francese riprende nel cognome prescelto starebbe a ricordare quel tratto identitario al quale Devereux avrebbe rinunciato convertendosi al cristianesimo ("Egli lo nascondeva, lo nascondeva e lo esibiva ad uno stesso tempo come il ministro nascondeva la Lettera rubata nel racconto di Edgar Poe" (Nathan, Préface à l’édition…, op. cit.). Per Roudinesco anche il significato di questa scelta religiosa non va drammatizzato in un contesto, quale quello degli anni del nazismo e dell’antiebraismo, dove in molti operarono lo stesso mascheramento per prendere le distanze da un mondo di orrori. Ancora una volta siamo confrontati con il senso da attribuire all’identità (in questo caso religiosa), essenziale, irrinunciabile e rivelata anche quando mascherata o all’opposto presa nel gioco sovente tragico della storia e dello statuto che quest’ultima le conferisce. A questa dialettica, a questa anima contingente e necessaria insieme dell’identità, non credo si possa sfuggire.

    [16]. Si confronti su questi aspetti ul numero monografico di "Cahiers des Sciences humaines" (volume 31, n. 2, del 1995), rivolto in particolare alla costruzione delle identità e delle appartenenze nelle società del Sahel.

    [17]. Rovesciando le accuse, così Nathan si difende dalla rovente critica di Fassin: "Pour Fassin, évoquer les différences culturelles ou le fait que des sujets migrants revendiquent une appartenance culturelle, ethnique, religieuse, c’est (…) une "manière de jouer avec le feu sur les sujets les plus sensibles en défendant les idées les moins acceptables". Je dois dire que ce type de propositions démontre soit sa totale méconnaissance du terrain, soit l’invasion de son fonctionnement mental par une sorte d’obsession pour le moins suspecte du racisme (…) Malgré ce qu’il en dit, je pense, tout comme lui, que les appartenances ‘culturelles’ ouethniques’ sont ‘artificielles’, construites et par conséquent d’une certaine manière contingentes (…)" (Nathan T., 2000, Psychothérapie et politique. Les enjeux…, op. cit., nostro corsivo). E poco più innanzi egli riprende il passaggio di un’intervista pubblicata alcuni anni fa su Le Monde: "Les considérer [gli immigrati, n.d.a.] dépositaires d’un savoir dont la connaissance nous enrichit, nous, professionnels, est une décision qui a pour conséquence de totalement modifier notre point de vue (…). Que toute cette attitude constitue un artefact, cela va de soi ! Que l’on ne puisse dire les migrants solidaires de leur culture comme le pouce de la main, c’est certain… Mais qu’importe ? En matière scientifique, un artefact n’a pas vocation de décrire la réalité mais de la produire. Et en matière de psychothérapie (…) par une curieuse alchimie, lorsque laa situation produit de la pensée, le patient va mieux et lorsqu’elle ne fait que confirmer des dogmes, il ne se passe pas grand-chose" (ivi).

    [18]. Cfr. Nathan T. e Hounkpatin L., 1998, La guérison yoruba, Odile Jacob, Paris.

    [19]. Beneduce R., 1998, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Angeli, Milano.

    [20]. Le polemiche fra alcuni antropologi e Nathan si sono fatte più rudi laddove a Nathan è stato rimproverato di non citare le fonti delle ricerche e dei dati a cui farebbe riferimento. La questione, in apparenza solo filologica, non può essere trattata qui come dovrebbe. Si veda al riguardo Beneduce, Frontiere dell’identità…, op. cit. Possiamo qui ricordare però che la conoscenza (anche linguistica) di Nathan è tutt’altro che di seconda mano, ciò che talvolta i suoi critici fanno fatica ad ammettere.

    [21]. Ciò implica ovviamente la consapevolezza che l’etnopsichiatria clinica non si riduce ad essere quella dei pazienti che provengono dal Magreb o dall’Africa sub-sahariana: quando essa si confronta con vittime della tortura e della violenza (politica o di genere), provenienti dai Balcani o dell’America Latina, sono altre le domande di cura alle quali deve rispondere.

    [22]. Nathan T., 2000, Corps d’hmains//corps de ‘djinns’, in "Prétentaine", 12/13, pp. 71-90.

    [23]. Beneduce R., 2000, Entre pkusieurs mondes. Acteurs, discours et pratiques de la possession en Afrique, Thèse de Doctorat en anthropologie sociale et ethnologie, EHESS, Paris.

    [24]. In riferimento agli spiriti denominati mami wata nel golfo di Guinea, così conclude Bastian: "Nonetheless, there is something compelling about how the discourse of spirit/human interaction relies on metaphors of kinship and alliance (…) Perhaphs what can help draw together suche disparate worlds as those of spitit and humanity can help explain and knit up, for the Igbo, some of their fractured experience(s) of modernity as well" (Bastian C., 1997, Married in the Water: Spirit Kin and Other Afflictions of Modernity in Southeastern Nigeria, "Journ. of Religion in Africa", XXVII, 2, p. 131)

    [25]. Nella discussione della mia tesi di dottorato a Parigi mi si faceva rilevare come non si potessero "rabattre sur le culturel" tutte le difficoltà psicologiche degli immigrati. Giusto, e l’ho io stesso sostenuto in molte occasioni. Tuttavia affiora il sospetto di una singolare rimozione: riferirsi sempre e soltanto alle categorie della psicanalisi o della psichiatria per interpretare o curare il disagio psichico, sarebbe in sé diverso? Quelle categorie e quei modelli non sono essi stessi "culturali"?

    [26]. Beneduce R., 2000, , Entre pkusieurs mondes. Acteurs, op. cit.

    [27]. Nathan T., 2000, Corps d’hmains//corps de ‘djinns.’…, op.cit.

    [28]. Qui parafrasiamo il titolo del recente articolo di Fassin già citato e ripreso nel nostro stesso titolo.

    [29]. Ricordiamo che Fassin è medico e antropologo tutt’altro che sommario nei suoi lavori. Rinviamo in particolare alla sua bella ricerca in Senegal, condotta alla periferia di Dakar: Maladie et pouvoir en Afrique, del 1992.

    [30]. Sui temi ora ricordati si veda Zimmermann F., 1999, Sahlins, Obeyesekere et la most du capitain Cook, "L’Homme", n. 146, pp.191-205.

    [31]. Non è un caso che Rechtmann abbia parlato di "derive dell’etnopsichiatria" e di ingiustificata rinuncia da parte di Nathan alla nozione di soggettività (cfr. Rechtmann R., 1999, Oui, il y a une dérive de l’ethnopsychiatrie, "Politis", 577, n. 2, pp. 24; cfr. però anche i contributi di Corin e di Streit, nonché dello stesso Rechtmann, apparsi su "Transcultural Psychiatry", vol. 34, n. 3, 1997, nei quali l’analisi teorica dell’opera e della ricerca di Nathan si mostra assai rigorosa). Nathan si difende comunque vigorosamente dall’accusa

    [32]. Roudinesco E., 1999, Je plaide pour la liberté de ne pas être toujours ramené à ses racines, "Politis", 577, n. 2, pp. 20-23. Si confronti ad ogni modo l’esauriente risposta di Françoise Sironi, accessibile al sito internet del Centre Devereux, sui malintesi (e sugli intenzionali equivoci provocati da un giornalista "distratto") relativi alle presunte posizioni che Nathan e il Centre Devereux avrebbero espresso sull’escissione. Il contributo di Sironi chiarisce al di là di ogni dubbio la prospettiva critica da sempre adottata da Nathan su questo tema.

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